Gino Castaldo
Repubblica, 22 Dicembre 1991
INFAGOTTATA nei suoi improbabili vestiti, con quel crocchio di capelli dritto sulla testa, simile ad una statua africana, Nina Simone sembra arrivare da un altro pianeta, proveniente da un' era della musica per così dire pre-tecnologica, ostinatamente tribale, tutta acustica e stilisticamente essenziale. Il suo segreto è tutto in questa prodigiosa alienità, scevra da qualsiasi compromesso o concessione che sia. Come molti grandi interpreti, ma forse più di chiunque altro, sembra attingere ad un mondo tutto suo, misterioso e impenetrabile. Lascia scorrere liberamente la sua voce, al di là di ogni impostazione convenzionale del canto, ottenendo un' intensità drammatica che non ha confronti nella musica di oggi.
Il suo modo di cantare è talmente diretto, non mediato da alcuna sovrastruttura stilistica da provocare nell' ascoltatore un emozionante disagio, quell' imbarazzo che si prova quando ci vengono presentate verità troppo brutali, e per di più disadorne, non addolcite da forme retoriche. Una geniale semplicità. Dunque, per usare un' immagine cara alla cultura afroamericana, sembra che per Nina Simone il tragitto dall' anima all' espressione vocale sia il più diretto immaginabile, non elaborato, non arricchito strada facendo da quegli 'effetti' che più o meno tutti i cantanti adoperano per imbellire la propria emissione vocale. Per trovare qualcosa di simile dovremmo tornare indietro a Billie Holiday, anche se le due voci sono completamente diverse, simili solo in questa capacità di superare con geniale semplicità gli aspetti più convenzionali e artificiosi del canto.
A tutto questo, nel concerto tenuto dalla Simone al Palladium di Roma, si è aggiunta una prepotente bizzarria, una stralunata vivacità che in altri recenti concerti era mancata. L' avevamo vista altre volte, sempre più appesantita da una sorta di allucinata catatonia che pure produceva effetti di sconvolgente drammaticità. Mentre a Roma, ha fin dall' inizio dialogato col pubblico, prima insultandolo perchè rumoreggiava o si distraeva in fondo al locale in zona bar, poi blandendolo, richiedendo perentoriamente attenzione, poi infine facendolo cantare e arrivando a sorridere entusiasticamente di fronte al crescendo di entusiasmo collettivo. In questa vena più generosa e estroversa del solito, ha saputo passare dai toni più sofferti, elegiaci, allo swing veloce e divertente di cui pure è maestra.
Per cantare la sua "See lime woman" si è addirittura messa a ballare, su una scansione africana sottolineata dal battito di mani della platea. Ha spaziato nel suo immenso repertorio sia riproponendo alcuni classici di sua composizione come "Mississippi goddam", "Four women", sia come di consueto riproponendo canzoni tratte dai più disparati repertori, e riproposte nella sua inconfondibile, spesso radicalmente diversa, versione. Splendida tra le altre la classica "Don' t let me be misunderstood", all' interno della quale ha infilato una lunga citazione, o almeno così è parso ai presenti, di ' Dicitencello vuje' [in realtà era "Just Say I Love Him", la versione inglese di "Dicitincello vuje"]. La sigla di una carriera. Ha poi proposto "Baltimore" di Randy Newman, "Here comes the sun" dei Beatles, che fu molti anni fa un suo personalissimo successo in America, e a sorpresa una entusiasmante versione di "My way", che ovviamente faceva letteralmente scomparire quella di Frank Sinatra. E poi "I put a spell on you", "Love me or leave me" e altre ancora.
L'unica vera concessione al pubblico Nina Simone la ammette nel chiudere sistematicamente tutti i suoi concerti con l' immancabile, richiestissima "My baby just cares for me", vera e propria sigla della sua carriera, e puntualmente occasione di un festoso, eccitante finale con tutto il pubblico in delirio.