Giuseppe Videtti
Repubblica, 11 Giugno 2001
Midtown Bar and Grill, Atlantic City, 1954. Eunice Waymon, giovane ragazza nera della Carolina del nord, suona nel supper club per pagarsi le lezioni di musica. Per evitare che i genitori, ministri della chiesa battista, lo sappiano, si fa chiamare Nina Simone. Ha la testa piena si sogni. La Juilliard School di New York, con l' idea di diventare la prima concertista afroamericana. Una voce ubriaca tuona nel locale semivuoto. «Canta! Perché non canti?» Un brivido di terrore le attraversa la schiena. Non ha mai cantato, non può. E il padrone del club minaccioso: «Vogliono che canti. Canta. O sparisci» le sibila nell' orecchio. Incomincia a cantare con la voce spezzata, gracchiante, virile. Lo fece perché aveva giurato a se stessa di suonare alla Carnegie Hall.
Ci arrivò, ma come cantante. E ci tornerà tra pochi giorni, il 28 giugno. Parigi, 8 giugno 2001, Palais des Congres. «E' bello rivedervi dopo dieci anni» mormora ai settemila che riempiono la sala. Tutto esaurito da febbraio. Nina Simone ha 68 anni, vive a Bouc Bel Air, non lontano da Aix en Provence. Polemicamente, ha rinunciato alla cittadinanza americana. Le fanno compagnia la solitudine e un ragazzo magro e pallido col naso aguzzo che ne ha fatto la sua ragione di vita, Roger Nupie, il presidente del fan club. Non è difficile immaginare un rapporto di complicità e di indecifrabile opportunismo reciproco, come quello di Marguerite Duras e del suo giovane amicoamante gay.
A malapena si regge sulle gambe. L' accompagnano in due allo sgabello del pianoforte. La prima standing ovation dura quasi dieci minuti, e la sacerdotessa del soul non ha ancora pronunciato una parola. Quando il pubblico si riaccomoda sulle poltrone, pigia un dito su un tasto del pianoforte e intona solenne "Black is the color of my true love' s hair", una folk song irlandese che negli anni Sessanta vestì con costumi africani.
Canta a stento, ma il timbro non ha perso la forza. Ancora come lo raccontava Sam Shepard in Motel Chronicles. Canta "Everytime I feel the spirit", un gospel che le toglie il fiato. Poi "Here comes the sun" di George Harrison. Si perde in una versione in inglese, intensa, disperata, di "Dicitencello vuje" che la lascia disorientata. «Qual è la prossima?» chiede ai musicisti.
E prima di ottenere risposta è già nello spirito di Dylan, con la sua versione di "Just like a woman". «Ora voglio ballare» esclama perentoria. Ma riesce a malapena ad alzarsi per scandire con i piedi il tempo dell' ipnotica "Seeline woman".
Alla fine, sfiancata, scompare dietro le quinte. Il gruppo resta in panne. Il percussionista si prodiga in un assolo, il chitarrista accenna una bossa novajazz. I ragazzi (ci sono moltissimi giovani in platea) la invocano: «Nina ne nous quitte pas», non ci lasciare, come il titolo francese della sua autobiografia, come la canzone di Jacques Brel che canta non appena la riaccompagnano al pianoforte. Il momento più intenso della serata, insieme alla ripresa di "Don' t explain" di Billie Holiday.
Le resta la forza per un altro spiritual: "Trouble of the world", la cantava Mahalia Jackson nel film Lo specchio della vita, nella scena in cui Lana Turner piangeva al funerale della sua cameriera di colore. Il pubblico non si rassegna a lasciarla andare. La richiamano in scena con amore, si assiepano sotto il palco. Una ragazzina singhiozza invocando il suo nome. Assomiglia alla Bridget Fonda infatuata della Simone nel film Nome in codice: Nina. Rientra per liquidare in due minuti "My baby just cares for me", la canzone che la pubblicità di Chanel N. 5 portò prima in classifica, trent' anni dopo. Tenta un inchino, dice «Vi amo», poi si ritira.
Cinquanta minuti: pochi per un biglietto pagato 150.000 lire. Tanti per i fan che non ci speravano più. Sanno che è in difficoltà. Sanno che di più non può dare. Vorrebbero, ma non osano chiedere un secondo bis.