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La cultura delle arti grafiche in Italia, il caso del colore 1

La cultura grafica in Italia, langue da decenni. Non so bene se la presenza di associazioni, come per esempio Taga, siano la causa o l’effetto del basso profilo culturale delle arti grafiche, ma la pochezza tecnica degli operatori e dei consulenti è un dato di fatto. E tengo come riferimento altri paesi europei, a iniziare dai nostri confinanti: Svizzera, Austria, Francia, e poi Germania, Olanda che fanno tutti parte del comitato ISO che emana le norme per la stampa industriale (assieme ad altri 12 paesi, tra cui Tailandia, Ucraina, Cina). Italia no naturalmente. Assieme a Croazia, Cuba, Estonia, Corea, Mongolia e altri 16 paesi, l’Italia è solo un paese osservatore (alla data in cui scrivo).

Non è una situazione nata oggi, è così da cinquant’anni credo. Non siamo più ai tempi in cui l’editore Giulio Einaudi incarica Francesco Simoncini di disegnare il fortunato carattere che ancor oggi rende inconfondibili le stampe di quella casa editrice. Era il 1958 e da allora ad oggi la cultura della stampa e soprattutto della prestampa italiana è andata a spegnersi e a confondersi sempre più con le strategie di marketing delle multinazionali del settore. L’arrivo dei computer ha fatto il resto ed ora sono solo macerie.

Non esiste un vocabolario comune tra i grafici italiani, non ci sono competenza affermate, non ci sono collaborazioni internazionali alla pari. Non ci sono corsi di laurea né istituti di ricerca né iniziative importanti. Gli unici soggetti che potrebbero fare qualcosa, cioè le associazioni culturali e tecniche del settore, sono immobili e perpetuano la vecchia sottocultura diffusa dagli anni 60 in poi dalle numerose scuole professionali del settore e dai libri di testo che circolavano allora (io li colleziono nel settore “mostri” della mia biblioteca). Poveri studenti.

Per dare un’idea dello stato di abbandono in cui si trova la cultura grafica italiana, ho preso un document0 del settore, e ho dato un’occhiata solo alle pagine che riguardano il colore, che è l’unico argomento sul quale posso dire qualcosa. Il colore è ovviamente molto importante per le arti grafiche ma non sembra esistere, tra i dirigenti e consulenti di queste associazioni, qualcuno che se ne occupi con competenza.

Il documento si intitola “Linee guida per la stesura di capitolati tecnici di fornitura di carta e inchiostri” è pubblicato da Rassegna Grafica e curato (si fa per dire) dagli esperti di Taga. È un fascicoletto di 84 pagine, che si presenta molto bene e contiene ben due glossari, uno per la carta e un altro per gli inchiostri (già questa pare un’idea peregrina, non sarebbe stato meglio unificarli?). Facciamo una verifica comparata.

Il campo dove regna la massima incertezza è quello della cosiddetta, con termine non tecnico, luminosità. Tra le varie espressioni italiane (luminanza, brillanza, chiarezza, lucidezza, lucidità) e le espressioni inglesi (lightness, brightness, luminance) il minestrone è presto fatto.

Secondo il glossario della carta, chiarezza si traduce in inglese lightness (corretto), ma poi l’autore si sbilancia e dice che viene usato anche il termine “luminanza” (sbagliato).  Definisce la chiarezza un “attributo colorimetrico” ma in realtà è un attributo percettivo. D’altra parte alla voce “brillanza” si legge che “corrisponde approssimativamente alla grandezza colorimetrica luminanza”. E qui la frittata è fatta perché se fosse vero (a) chiarezza, luminanza, brillanza, luminance e lightness sarebbero tutte la stessa cosa, e (b) la luminanza sarebbe una grandezza colorimetrica e per il punto precedente, lo sarebbero tutte le grandezze citate.

Devo aggiungere che  secondo il glossario degli inchiostri esiste anche la brillantezza che è, secondo il glossario, sinonimo di “saturazione” (ahi, ahi). Giustamente, il glossario della carta non è d’accordo (stanno nella stessa pubblicazione, ma evidentemente i due autori non si sono parlati). Per il glossario della carta la brillantezza è la “misurazione derivata dai valori di colore della carta” e si chiama whiteness (la cosa inizia a farsi complessa). È, secondo questo glossario, un  valore che definisce la sensazione di bianchezza e misura la riflessione penalizzando l’eventuale dominante cromatica (mah).

Anche per quanto riguarda la saturazione, che è stata tirata in ballo dal glossario della carta, il glossario degli inchiostri la pensa diversamente: è una grandezza colorimetrica della percezione del colore che permette di valutare la proporzione della percezione cromaticamente pura presente in quella totale (incomprensibile). E comunque l’espressione “colorimetrica della percezione” mi sembra un ossimoro, come ghiaccio bollente. O è colorimetrica o è della percezione, non può essere di entrambi (e in realtà la saturazione è un attributo percettivo, niente a che fare con la colorimetria).

A questo punto i due glossari hanno già confuso le idee anche a chi pensava di averle chiare, ma ci sarebbe ancora molto. Per esempio secondo il glossario della carta esiste una grandezza che si chiama “grado di bianco” che è sinonimo di “luminosità” e che in inglese fa brightness, e a questo punto torniamo all’inizio del giro dell’oca.

Ancora, la voce colore porta tra parentesi “tonalità” come a dire che sono la stessa cosa, mentre per il glossario della carta il colore è un colorante (la confusione aumenta). Poi bisognerebbe dire qualcosa su “grado di lucido ” e “lucidezza”, ma basta così. Anzi no, questa ve la devo dire: per il glossario della carta, CIELAB è “uno spazio del colore basato sulla visione extrafoveale del campo visivo”. Extrafoveale. E dire che si poteva consultare il dizionario internazionale della CIE che riporta tutti questi termini in italiano, con le definizioni corrette e con le corrette traduzioni in inglese e in altre sette lingue. E tale dizionario è citato spesso nelle bibliografie di questi documenti. Citato, ma evidentemente non letto.

Vedi anche La cultura delle arti grafiche in Italia, il caso del colore 2.

 

Mauro Boscarol

14/9/2007 alle 16:35