Nella serie Prima lezione sul colore
Le insidie linguistiche del colore
Qualunque cosa semplice si possa dire sul colore è probabilmente sbagliata, perché quella del colore è una materia complessa, un terreno accidentato, cosparso di numerose insidie soprattutto linguistiche, ma non solo.
Insidie del linguaggio comune
Le insidie più pericolose sono quelle del linguaggio comune. Per iniziare, nel linguaggio comune la stessa parola “colore” ha un diverso significato in ognuna delle seguenti frasi:
- i colori dell’arcobaleno (sensazione);
- un colore a olio (sostanza per dipingere);
- una persona di colore (pelle scura);
- i colori nazionali (bandiera, stemma);
- gioca per gli stessi colori (squadra);
- il colore di una giunta (orientamento politico);
- una prosa ricca di colore (espressività);
- colore di cuori (seme delle carte da gioco).
Se studiamo il colore, la parola “colore” va usata esclusivamente con il primo significato, cioè quello di sensazione causata da uno stimolo luminoso, come quando si dice “i colori dell’arcobaleno” o “il colore di quella foglia” o “il colore che preferisco è il blu”.
Invece, per indicare una sostanza usata per dipingere o colorare, per esempio una vernice o un pigmento (il secondo significato nella lista qui sopra) il termine tecnicamente corretto è “colorante”. Un negozio di colori è in realtà un negozio che vende coloranti.
Tutti gli altri significati elencati non vengono considerati nella scienza del colore. Questa è la prima fondamentale distinzione linguistica che chi si interessa di colore dovrebbe usare.
Un’altra pericolosa insidia linguistica è chiaramente espressa dal pittore tedesco Josef Albers:
Se si dice “rosso” … e ci sono cinquanta persone che ascoltano, ci si può tranquillamente aspettare che abbiano in mente cinquanta tipi di rosso. E si può essere sicuri che tutti questi rossi saranno molto diversi.
Benché i colori siano innumerevoli, …, nel vocabolario corrente vengono usati solo una trentina di nomi di colori.
(Tratto da Interazione del colore, vedi Letture più sotto)
Infatti i colori che percepiamo sono qualche milione e non abbiamo abbastanza nomi per indicarli tutti. Così rosso, giallo, verde, blu, viola e ogni altro nome di colore del linguaggio comune non indica un colore preciso ma un gruppo di colori dai confini incerti. Se dico “rosso” certamente non è verde, ma potrebbe essere un rosso più chiaro o più scuro, più carico o meno, più tendente all’arancio o più al viola.
Insomma, un nome non è sufficiente per individuare precisamente un colore. Questo vale per i nomi “semplici” come rosso, verde, giallo, ecc e anche per i nomi “complessi” come rosso pompeiano, verde pisello, rosa geranio, giallo di Napoli, blu di Prussia e così via. Un nome non basta. Per questo è nata la colorimetria, che studia la rappresentazione del colore mediante numeri, non mediante nomi.
Un’altra insidia più sottile è causata dalla confusione che ancora oggi esiste sul termine colori primari. Il termine viene usato sia per (a) trattare la mescolanza di stimoli di colore sia nella (b) spiegazione della nostra esperienza fenomenologica del colore.
Nel primo caso (la mescolanza) si ritiene che i colori primari siano alcuni colori dai quali possono essere generati, per mezzo di qualche mescolanza miracolosa, tutti gli altri. Se definiti in questo modo, i colori primari non esistono. Invece, è corretto usare il termine “colori primari” per indicare i colori degli stimoli che si mescolano. Per esempio un monitor da computer produce tutti i colori che può produrre mescolando tre stimoli primari: uno per il rosso, uno per il verde e uno per il blu. Il primario rosso è esattamente il colore che il monitor produce quando riceve i segnali R = 255, G = 0, B = 0, e analogamente per gli altri due primari.
Una stampante a getto d’inchiostro ha una data carta e ha (per esempio) sei inchiostri (cioè coloranti) e dunque sette stimoli primari (compreso il colore della carta). Il primario giallo è esattamente il colore che quella stampante produce quando stende su quella carta l’inchiostro giallo. Ogni stimolo di colore che la stampante può produrre è ottenuto per mescolanza dei suoi stimoli primari.
Nel secondo caso (l’esperienza fenomenologica) sono “primari” i colori rosso, giallo, verde e blu che, per la maggior parte delle persone, possiedono una singola qualità soggettiva. L’arancio non è primario perché, per la maggior parte delle persone, possiede le qualità sia del rosso che del giallo. In altre parole la maggior parte delle persone percepisce l’arancio come mescolanza di rosso e di giallo.
Ci sono infine varie parole del linguaggio comune spesso usate nel campo del colore, che non fanno parte del linguaggio tecnico e che andrebbero evitate perché ambigue. Eccone alcune:
- sfumatura o nuance: spesso usato nel senso di “colore” (come in “il rosso è il colore con più sfumature al mondo” o “nuance di castano”) o di “dominanza” (come in “caffè nero con sfumatura di rosso”); da evitare;
- gradazione (inglese shade) : anche questa spesso usato nel senso di “colore” (come in “gradazioni di verde“); da evitare;
- tonalità: in fotografia è usato con il significato di “chiarezza” (come in “correzioni tonali”); accettabile solo con questo senso;
- tono (inglese tone): spesso usato nel senso di “tinta”, altre volte nel senso di “chiarezza”, altre volte ancora nel senso di “colore” (come in “se cambi spazio perdi dei toni”); da evitare;
- scala tonale: spesso usato nel senso di “insieme di colori”, per esempio “lo spazio Adobe RGB può rappresentare una scala tonale più ampia” (invece di “può rappresentare più colori”); da evitare.
Insidie del linguaggio tecnico
Ogni disciplina tecnica e scientifica ha un proprio lessico di settore, più o meno codificato. Esiste il linguaggio della fisica, quello della matematica, quello della biologia e così via. I linguaggi scientifici derivano dalla lingua comune ma il legame tra una parola e il suo significato non è arbitrario ma è determinato una volta per tutte, convenzionalmente, determinando un unico impiego per una parola e cercando di ridurre al minimo l’ambiguità.
Il colore è un argomento interdisciplinare, che utilizza concetti dell’ottica, matematica, fisiologia, psicologia della percezione. Ma il colore è studiato e applicato anche in architettura, nel design, nell’arte, nella moda. Questa derivazione da settori diversi ha fatto in modo che il lessico del colore ancora oggi presenti numerose incertezze e, per esempio, le stesse cose vengano chiamate in modo diverso in settori diversi, e non solo in italiano.
Una emblematica insidia è il vocabolo “mescolanza” o “sintesi” di colori. Nella cultura popolare del colore i due tipi di mescolanza (o di sintesi), quella additiva e quella sottrattiva, sono considerate due varianti dello stesso fenomeno. Ed invece sono fenomeni così diversi che appartengono addirittura a ambiti diversi: la mescolanza sottrattiva appartiene all’ambito fisico, la mescolanza additiva all’ambito fisiologico. La mescolanza di stimoli è dunque una insidia linguistica e contemporanemente una insidia di categoria (vedi il prossimo post).
Un altro caso è quello delle parole “brillanza” (brightness) e “chiarezza” (lightness) che fino a poco tempo fa avevano un significato diverso da quello di oggi. Inizialmente la parola brillanza (brightness) indicava l’intensità dello stimolo prodotto da un corpo autoluminoso come il sole, una candela, una lampadina, mentre la parola chiarezza (lightness) era usata per indicare l’apparenza di un’area non autoluminosa. Ora i significati di questi termini sono stati stabiliti internazionalmente, ma talvolta vengono usati ancora con i vecchi e non più validi significati.
Letture
Hermann Helmholtz e i concetti fondamentali della colorimetria
Un mio articolo presentato alla Conferenza del Colore di Roma 2011 (sulla cultura popolare del colore e tra l’altro sui primari)
Josef Albers Interazione del colore. Esercizi per imparare a vedere 1971 ora disponibile anche per iPad (gratuito)
Ludwig Wittgenstein Osservazioni sui colori
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